https://www.youtube.com/watch?v=RLL1zGR-gRE&feature=youtu.be
Come hanno svenduto ltalia alla finanza anglo-tedesca.
Come ricordano Bruno Amoroso e Nico Perrone nel loro libro “Capitalismo predatore”, sulla nave privata della regina Elisabetta, Mario Draghi, Luigi Spaventa, Giovanni Bazoli, Giulio Tremonti, Mario Baldassari, Mario Monti, Emma Bonino e altri incontrarono i loro referenti stranieri e «discussero delle prospettive dell’economia e, senza mezzi termini, della privatizzazione del patrimonio mobiliare controllato dallo Stato italiano. A quella crociera, fece presto seguito una cascata di privatizzazioni: l’intero sistema delle Partecipazioni statali venne smantellato. Mario Draghi fu premiato con la presidenza del Comitato privatizzazioni (dal 1993 al 2001), mentre dai beneficiari fu fatto vice chairman and managing director della Goldman Sachs International.
Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia italiana”. Si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana, nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali ovvero una sorta di “dittatura” economica.
Nella riunione si decise di “svendere” il patrimonio industriale – finanziario dello Stato italiano con il pretesto delle liberalizzazioni-privatizzazioni. Appunto. La privatizzazione del patrimonio pubblico avviene in due fasi. Nella prima fase vennero cedute l’IRI, TELECOM ITALIA, ENI, ENEL, COMIT, IMI, INA, CREDITO ITALIANO, AUTOSTRADE. L’INDUSTRIA SIDERURGICA ED ALIMENTARE PUBBLICA. La fase successiva punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico. L’”Operazione Britannia” mette nelle mani di pochi gruppi finanziari “occulti per identità”, ciò che prima era dei cittadini, sottraendo notevoli risorse dalle casse dello Stato dopo che nel 1981 gli era stata scippata Banca d’Italia per costringerlo a finanziarsi esclusivamente dai banchieri privati il che fece raddoppiare il debito pubblico in soli 10 anni per il “semplice fatto ” che dal 1981 la Banca d’Italia ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella lontana decisione contribuì a produrre non solo l’enorme debito pubblico ma anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della Ue e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca.
Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue.
Il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta giustificò questa sua bravata del divorzio di Banca d’Italia dicendo che voleva interrompere la politica dei soldi facili per abbassare il debito pubblico, ridurre l’inflazione e consentire all’Italia di entrare nei rigidi parametri dello SME (Sistema Monetario Europeo, ovvero l’anticamera dell’Unione Europea), ma l’effetto che provocò fu esattamente il contrario perchè poco dopo il divorzio fra Banca d’Italia e lo Stato il debito pubblico cominciò a crescere in modo galoppante, diventando in sostanza quell’enorme massa di debito che ci portiamo avanti fino ad oggi.
Infatti è utile ricordare che nel 1981 quando il ministro Andreatta sancì il divorzio fra Banca d’Italia e lo Stato, nessuno poteva immaginare che la Banca d’Italia nazionale fosse già da tempo passata in mano privata (il capitale della Banca d’Italia è partecipato tutt’oggi dalle principali banche private come Unicredit, Banca Intesa e Banca Montepaschi di Siena, mentre solo il 5% della proprietà appartiene ad enti pubblici), perchè l’inchiesta che svelò la lista degli anonimi azionisti privati di Banca d’Italia, che ingenuamente molti ritenevano un’istituzione pubblica, è solo del 2005.
Quindi il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e l’allora governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi (presidente emerito della repubblica, ma emerito per cosa? Per aver contribuito allo sfascio della democrazia italiana? Mistero) erano parecchio in mala fede quando decretarono di comune accordo quel divorzio perchè sapevano che impedendo a Banca d’Italia di intervenire nelle aste primarie di collocamento dei titoli di stato avrebbero messo lo Stato italiano nelle mani di voraci banche private come Unicredit, Banca Intesa, Montepaschi, Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, gli hedge funds, gli speculatori finanziari, che infatti in quel periodo indirizzarono le aste al rialzo, gettandosi a capofitto nella grande abbuffata di titoli di stato ad alto rendimento e facendo lievitare in modo inimmaginabile il debito pubblico.
Ad onor del vero anche parecchi cittadini privati italiani si arricchirono con i titoli di stato, tuttavia quello era un periodo in cui lo Stato italiano cominciava a perdere pezzi della sua struttura democratica ma era ancora uno stato sovrano, con la sua banca centrale e la sua moneta sovrana la lira, quindi il rischio di fallimento non era nemmeno lontanamente contemplato (al massimo si svalutava la lira rispetto alle altre monete estere, l’inflazione schizzava alle stelle e si cominciava daccapo con la speculazione).
Oggi quel processo iniziato tanti anni fa, proprio con il divorzio fra Banca d’Italia e lo stato italiano, è arrivato al suo finale compimento, perchè non solo la banca centrale Bankitalia S.p.A. è stata privatizzata ma anche l’intero Stato Italiano e la sua effimera democrazia sono stati trasformati in una gigantesca società per azioni, avendo di fatto lo stato ceduto la sua sovranità politica ad una pletora di tecnocrati europei per quanto riguarda l’aspetto legislativo ed esecutivo, e agli avvoltoi della finanza per quel che rimaneva dell’antica sovranità economica e monetaria.
(Written by Piero Valerio http://www.ultimenotizie.we-news.com/politica/interna/6323-il-divorzio-di-banca-ditalia-e-linizio-della-fine-della-democrazia-italiana# )
In sintesi è stata ceduta e ancora cederemo, la sovranità industriale ed economica dell’Italia.
La mancanza di risorse ha provocato e provoca la riduzione del Welfare, dei posti di lavoro, del il monte salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il sistema sociale, frutto di tante “battaglie sindacali”. La “pistola” puntata alla tempia del “globalizzatore” ci costringerà a rivedere il nostro sistema dei diritti al cittadino (sanità, pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), accelerando la fine dello Stato Sociale moderno. La finanziarizzazione dell’economia mondiale, con interi settori dell’economia reale, vengono “cooptati” sul grande tavolo da “gioco” della finanza globale. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col “cerino” in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff, dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.
Britannia 2 la “Scarpetta”.
Dopo la prima mega alienazione dei beni dello Stato, non c’è stato un cambio di politica economica che mettesse al centro i diritti dei cittadini. E’, infatti, sotto gli occhi di tutti lo sperpero di denaro pubblico a tutti i livelli amministrativi delle istituzioni . Cosi, in circa venti anni, si è creata un’altra “voragine” economica con un debito pubblico insostenibile per i cittadini italiani. Dato l’enorme debito pubblico, si vocifera sempre più insistentemente di alienare il patrimonio immobiliare dello Stato valutato di pari valore e di privatizzare le aziende pubbliche di servizi alla collettività, oltre a paventare la “cancellazione” degli ordini professionali. Si tratta quindi di una situazione economica “Ghiotta” per la speculazione in atto sui beni della collettività. Non è esclusa anche la vendita degli Ospedali (come ha annunciato il Presidente della Regione Lazio) e chissà quale altra iniziativa lesiva gli interessi dei cittadini. Rimane il fatto che i cittadini devono “pagare”.
Scrive il giornalista Marcello Veneziani al proposito: “…Dopo quell’incontro avvennero alcune scelte importanti, non solo di cessioni e mutamenti d’indirizzo. Ci fu ad esempio la svalutazione della lira che di fatto risultò un comodo affare per le finanze di Wall Street; all’epoca fu notato che per gli acquirenti internazionali il malloppo italiano diventò meno costoso del 30%. Svendita di alcuni pezzi forti della nostra economia di Stato.”
L’incontro dei nostri politici e finanzieri con gli emissari anglotedeschi sul panfilo Britannia della regina d’Inghilterra fu la seconda fase dell’operazione «SvendItalia». Occorre risalire al 12 Febbraio 1981, quando l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse una lettera a Carlo Azeglio Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, con la quale sanciva il divorzio tra le due istituzioni.
Perché è importante questa data? Perché fino allora la sovranità monetaria era garantita dalla proprietà dell’istituto di emissione (Legge bancaria 1936) e controllata dallo Stato attraverso le BIN e gli ICDP. Bankitalia si impegnava a riacquistare i titoli non collocati presso privati. Con questo sistema si garantiva il finanziamento della spesa pubblica, la creazione della base monetaria e la crescita dell’economia reale.
Questo permetteva al Paese di vantare un rapporto deficit/PIL tra i più bassi d’Europa: il 41,1 per cento contro il 41,2 della Repubblica Federale Tedesca, il 42,2 del Regno Unito, il 43,1 della Francia, il 48,1 del Belgio e il 54,6 dei Paesi Bassi.
Tutto ciò infastidiva il sistema finanziario globale (grande finanza speculativa e banche) a guida «spirituale» anglosassone, non permettendo loro di entrare nel grande mercato italiano nella gestione del risparmio e di acquistare o almeno controllare i grandi gruppi industriali italiani, in gran parte di proprietà dell’IRI.
In quegli anni, il risparmio delle famiglie italiane, depositato presso le banche, era il secondo a livello mondiale dopo il Giappone. Paesi ambedue usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale, ma vincitori nella ricostruzione economica grazie alla sovranità monetaria.
Tutto questo finisce con il 1981. Il Tesoro, per piazzare i titoli di Stato, è costretto a ricorrere al libero mercato, senza il paracadute di Bankitalia. Il prezzo lo fa chi compra, quindi per vendere occorre aumentare i tassi di interesse. Ecco crescere la spesa per interessi passivi. Il rapporto deficit/Pil passerà dal 56,86 per cento del 1980 al 105,20 del 1992.
1992. Data fatale. Dopo l’incontro sul Britannia, finisce l’èra dei governi «politici» ed inizia l’èra dei governi «tecnici»: Ciampi, Amato, Prodi. È l’anno di Capaci, che permette alla stampa «di regime» di sviare l’attenzione dai primi effetti dell’accordo di Civitavecchia. È l’avvento di Mani Pulite, che permette di togliere di mezzo Bettino Craxi, che, per quanto invischiato nella corruzione politica, avrebbe sicuramente lottato contro la svendita del Paese. Quello stesso Craxi che aveva posto fine all’impero di Cuccia in Mediobanca e bloccato Prodi, quando in qualità di presidente dell’Iri, aveva cercato di vendere il complesso alimentare dello SME.
La politica di difesa dello Stato italiano da parte di Craxi, fu osteggiata da ambienti angloamericani che accusarono il governo di «ingerenza dello Stato in economia». Era la dichiarazione di guerra per togliere di mezzo quella classe politica che si opponeva alle velleità americane di comandare in casa nostra.
Vogliamo dire che Mani Pulite fu «pilotata»? Sì. Vogliamo dire che il PD nacque per spezzare ancora di più la coesione della politica italiana contro l’ingerenza anglosassone? Sì.
Dopo l’incontro del Britannia, Amato divenne Presidente del Consiglio e con il decreto 333 dell’11 luglio trasformò in SpA le aziende di Stato IRI, ENI, INA ed ENEL e mise in liquidazione l’Egam. Quando dovette far fronte alla speculazione contro la Lira di Soros, utilizzò 48 milioni di dollari delle riserve della Banca d’Italia, dopo avere operato un prelievo forzoso dell’8 per mille dai conti correnti degli italiani. Mise in liquidazione l’Efim, le cui controllate passarono all’IRI e trasformò le FS in SpA. Sempre nel 1992 Draghi, Direttore del Tesoro preparò la Legge Draghi che entrerà in vigore nel 1998 con il governo Prodi e si predispose una legge per permettere la trattativa privata nella cessione dei beni pubblici qualora fosse in gioco «l’interesse nazionale».
Prodi, che dal 1990 al 1993 fu consulente della Unilever e della Goldman Sachs, quando nel maggio del 1993 ritornò a capo dell’IRI riuscì a svendere la Cirio Bertolli alla Unilever al quarto del suo prezzo e a collocare le azioni che le tre banche pubbliche, BNL (diventata della BNP Paribas), Credito Italiano e Comit detenevano in Banca d’Italia, privatizzando il 95 per cento della stessa. Indovinate chi scelse come «Advisor»?
Prodi ci portò in Europa, facendoci pagare il biglietto d’ingresso. Accettò un cambio svantaggioso per l’Italia, al fine di creare le basi dell’attuale situazione: recessione, miseria, svendita del nostro patrimonio nazionale.
La banca d’affari Goldman-Sachs, azionista della Federal Reserve americana, ha svolto un ruolo cruciale sin dall’inizio nella svendita dell’Italia, di cui si può ragionevolmente affermare che sia iniziata con esattezza il 2 giugno 1992 – nonostante alcuni precedenti inutili tentativi – con l’accordo preso sul panfilo Britannia, onori di casa fatti dalla Regina d’Inghilterra, al largo di Civitavecchia, tra Draghi, allora direttore generale del Tesoro, Azeglio Ciampi, in qualità di governatore della Banca d’Italia, e un centinaio tra rappresentanti della finanza anglosassoneamericana (Barclays, Warburg, azionista della Federal Riserve, PricewaterhouseCoopers – ex Coopers & Lybrand – Barings – oltre alla Goldman ecc.) e degli ambienti industriali e politici italiani. Era presente anche Costamagna, che diventerà dirigente della Goldman quando sua moglie finanzierà l’ultima campagna elettorale di Prodi.
Lì gli angli dettarono le istruzioni su come privatizzare, per scelta obbligata, le industrie italiane statali. Con l’aiuto della stampa iniziò una campagna martellante per incutere il timore nel popolo italiano di “non entrare in Europa”, manco ne fossimo stati tra i Sei paesi fondatori…
E questa è oramai storia, tant’è vero che sull’episodio del “panfilo Britannia” vi furono le interrogazioni parlamentari di alcuni onorevoli come Raffaele Tiscar (DC), Pillitteri e Bottini (PSI) Antonio Parlato (MSI), autore di tre interrogazioni rimaste senza risposta e della senatrice Edda Fagni (PCI). Fu l’inizio dell’era dei governi tecnici, dopo 40 anni di regime DC, con il “tecnico” Ciampi, il tecnico Amato, il tecnico Prodi. Il governo doveva, a tutti i costi essere “tecnico”, pur di non fare arrivare al potere neanche un’idea, che fosse tale e che lo fosse per il bene del paese, come sarebbe potuto esserla quella, ad esempio, di un Aldo Moro…
Era la stagione dell’attentato a Falcone cosicché – guarda caso – la stampa non diede il dovuto risalto all’incontro, e da poco erano iniziate le indagini di Tangentopoli – nome in codice Manipulite – cosicché molti esponenti degli ambienti politico-economici si ritrovarono improvvisamente “minacciati” dall’insidia latente di potersi ritrovare nell’occhio del ciclone. Un modo per “ammorbidire” un ambiente, prima della grande “purga”? Certo è che Manipulite sembra sia avvenuta proprio in un momento opportuno per fare “PiazzaPulita” di una classe politica con velleità italiote, e per ottenere le “ManiLibere” di fare entrare i governi dei “tecnici”, quelli che con i loro amici della Goldman e della Coopers ci avrebbero inculcato la “medicina” amara della svendita dell’IRI.
Di sicuro un Craxi, per quanto corrotto, non avrebbe mai siglato un patto così scellerato, quello di svendere tutto il comparto nazionale produttivo del paese (l’IRI ad oggi sarebbe stata la maggiore multinazionale al mondo e noi non saremmo un paese in svendita), lui che tenne testa agli americani nella vicenda dell’Achille Lauro, negando loro l’accesso al nostro territorio per attaccare i sequestratori della nave, terroristi palestinesi, e portando avanti le trattative con i terroristi nonostante il veto del presidente Reagan… Certo è che Craxi, dopo l’inizio di Tangentopoli, dovette rassegnare le dimissioni a febbraio del 1993…Guarda caso…
E, infatti, proprio qualche anno prima Craxi era stato duramente criticato dagli ambienti angloamericani, quegli stessi che non si privano mai d’interferire nella nostra politica interna, proprio di “ingerenza dello Stato in economia” – per voce dei loro accoliti Andreotti, Spadolini, Cossiga – perché aveva decretato la fine del mandato di Enrico Cuccia come presidente di Mediobanca (di cui divenne però presidente onorario), e perché si era opposto alla vendita dello SME, il complesso alimentare dell’IRI, negoziato direttamente dal suo presidente Romano Prodi ma smentita da una direttiva del Governo.
Mediobanca, secondo il sito e movimento internazionale Movisol (http://www.movisol.org/draghi4.htm ) “fu posta sotto il controllo di fatto della Lazard Frères [altra azionista della Fed Res] di Londra, una banca che è proprietà di un raggruppamento estremamente influente dell’establishment britannico, il Pearson Group PLC (…) che controlla anche la rivista “The Economist” e il quotidiano “Financial Times”. Nel piano di spartizione del bottino della seconda guerra mondiale “l’Italia, occupata dalle potenze occidentali, sarebbe diventata un’area in cui avrebbe predominato l’influenza britannica”, influenza che nel frattempo è scesa a patti con la grandeur della Francia….
Ma tornando agli angli, era quindi chiaro che per potere procedere alle privatizzazioni bisognava togliere di torno una classe politica che mostrava i muscoli davanti a certe velleità statunitensi di comandare a casa nostra, e soprattutto che non voleva mollare l’osso – o il malloppo – per lasciare posto a una classe di tecnici, fedeli servitori delle banche e dei circoli finanziari angloamericani, il cui motto era “privatizzare per saccheggiare”. Quella della condizione di tecnicità per accedere al potere fu un imperativo talmente tassativo, da riuscire nell’intento di dividere il PCI, con una fetta che divenne sempre più “tecnica”, sempre più British, sempre più amica delle banche, sempre più …PD…
Il premio di tutta questa svendita, prevista per filo e per segno in tanto di Libri sulle privatizzazioni dai governi tecnici, o di sinistra che dir si voglia (a firma di Amato o di Visco) fu la nostra “entrata in Europa”, demagogicamente parlando, o la cessione della nostra già minata sovranità monetaria dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea SA c per una moneta, l’euro che, con il tasso iniziale di cambio imposto euro-Lira troppo elevato fu penalizzante per le nostre esportazioni. Senza più la possibilità di emettere moneta quando il governo lo reputi giusto, con la possibilità di vendere i titoli del debito pubblico in mani istituzionali estere e private (fino al 2006 il nostro debito doveva rimanere in mani pubbliche e nazionali), senza neanche un governo economico a livello europeo che possa controllare quella banda di imbroglioni, è come se ci avessero improvvisamente messo sulla piazza pubblica per venderci al mercato degli schiavi…
E non c’è l’ombra di un dubbio che nel nostro indebitamente crescente vi sia la mano invisibile di qualche regia occulta, occulta ad esempio come i British Invisibles, che organizzarono appunto la riunione sul panfilo, occulta come alcuni azionisti che si nascondono nelle partecipazioni incrociate e a catena e di cui mai si riescono a scoprire i nomi. O come i mandanti di Soros che speculò sulla Lira per svalutarla, facendoci uscire dallo SME (Sistema monetario europeo) proprio per ostentare lo spauracchio del rischio di “non entrare in Europa”.
L’anno 1992 fu davvero un anno cruciale per il destino del nostro paese, tant’è vero che quando Amato divenne presidente del Consiglio qualche giorno dopo l’incontro sul panfilo, con il decreto 333 dell’11 luglio trasformò in SpA le aziende di Stato IRI, ENEL, INA ed ENI e mise in liquidazione l’Egam. In quell’anno, quando Amato dovette far fronte alla speculazione contro la Lira di Soros, utilizzò 48 milioni di dollari delle riserve della Banca d’Italia, dopo avere operato un prelievo forzoso dell’8 per mille dai conti correnti degli italiani. Sempre in quell’anno mise in liquidazione l’Efim, le cui controllate passarono all’IRI e trasformò le FS in SpA. Sempre nel 1992 Draghi, Direttore del Tesoro preparò la Legge Draghi che entrerà in vigore nel 1998 con il governo Prodi e si predispose una legge per permettere la trattativa privata nella cessione dei beni pubblici qualora fosse in gioco “l’interesse nazionale”….
Prodi, che dal 1990 al 1993 fu consulente della Unilever e della Goldman Sachs, quando nel maggio del 1993 ritornò a capo dell’IRI riuscì a svendere la Cirio Bertolli alla Unilever al quarto del suo prezzo e a collocare le azioni che le tre banche pubbliche, BNL (diventanta della BNP Paribas), Credito italiano e Comit detenevano ina Banca d’Italia, privatizzando il 95% della stessa. Indovinate chi scelse come “Advisor”?
Uomini della Goldman, nel senso che vi hanno lavorato sono, oltre a Costamagna e Prodi, Monti (catapultato alla carica di Commissario), Letta, Tononi e naturalmente Draghi. Sicuramente ce ne sono altri; molti nostri uomini politici se non lavorano per la Goldman, lavorano per l’FMI, come Padoa Schioppa, presidente della BEI, Banca europea per gli Investimenti.
Queste sono informazioni che dovrebbero essere spiegate in lungo e in largo dalla stampa, e sicuramente superate dagli avvenimenti – tranne articoletto del Corriere sopra – e invece sono state, e lo sono tutt’ora, accuratamente occultate al grande pubblico, anche se per quelli che gli altri si divertono a chiamare complottisti, per denigrarne le parole, è storia arcinota.
Nicoletta Forcheri 12 settembre 2008
http://archiviostorico.corriere.it/1992/giugno/02/convegno_sul_Britannia_sponsor_Regina_co_0_92060218751.shtml
http://archiviostorico.corriere.it/1992/giugno/03/Inglesi_cattedra_privatizzazioni_fate_come_co_0_92060319034.shtmlhttp://informatieliberi.blogspot.com/2008/07/1992panfilo-britannia-e-la-svendita.html
http://www.barbadillo.it/30387-ilborghese-la-svendita-dellitalia-e-il-ruolo-di-draghi-amato-e-prodi/
Come è stata svenduta l’Italia
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it – 12 marzo 2007
Autrice del libro: “DITTATURE: LA STORIA OCCULTA”
Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava.
Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali?
Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese.
Con l’uragano di “Tangentopoli” gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.
Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal Ministro degli Interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante.
Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.
Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: “Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi”.
Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993.
Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone. I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle “menti più fini dei mafiosi”.[1]
Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria.
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia: “la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri”, Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: “non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste”.[2]
I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: “Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm”.[3]
Anche il Pubblico Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: “Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti”.[4]
Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo.[5]
Che gli assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano.
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: “Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana”.[6] Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una visita a Monaco, disse: “Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove”.
Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: “Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato”.[7]
L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: “Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove”.[8]
Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali.
Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.
Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: “Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona”.[9]
Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: “Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche”.[10]
Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: “Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leaders dei partiti di governo”.
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).
In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani.
La stampa martellava su “Mani pulite”, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.
Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare.
L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane.
Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.
Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia.
La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.
In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani.
La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà:
Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico.[11]
Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo di Soros, gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari.
Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il Presidente e il segretario generale del “Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà”, durante l’esposto contro Soros:
È stata… annotata nel 1992 l ‘esistenza… di un contatto molto stretto e particolare del sig. Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della Banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria “Goldman Sachs & co.” come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della “Albertini e co. SIM” di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del “Quantum Fund” di Soros.
III. L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht “Britannia” della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione.[12]
I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori.
Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la “necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo”, pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni.
Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse:
I mercati valutari e le borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria.[13]
Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché “se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco”.
Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana.
Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato.[14]
Il 6 novembre 1993, l ‘allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare “le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute”. Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende.
Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia.
Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.
Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva “risanare il bilancio pubblico”, ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.
Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%.
Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank.
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.
Il titolo, che durante l’opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).
Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita.
La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti.
La Telecom , come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.
Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema.
Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni.
Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere.
La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti.
I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del Presidente del Consiglio.
Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati.
La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l ‘amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.
Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: “Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom”.[15]
Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (“Bond”) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.
Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating, Standard & Poor’s, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti.
I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.).
La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.
Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero.
Agli italiani venne dato il contentino di “Mani Pulite”, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere.
A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia.
Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.
http://www.disinformazione.it/svendita_italia2.htm
La stirpe dei Draghi
di Andrea Cinquegrani – gennaio 2006
Tratto da www.lavocedellacampania.it
Febbraio 1992, dicembre 2005. Dalla prima alla seconda Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa per le mazzette del pio albergo Trivulzio al crollo di un intero pezzo del sistema economico e finanziario culminato con le dimissioni di Antonio Fazio. In mezzo tredici anni durante i quali la corruzione non è mai morta, anzi, ha intrapreso nuovi e più innovativi percorsi, le mafie hanno decuplicato i loro già pingui fatturati, lo Stato sociale è stato smantellato, l’economia massacrata a colpi di privatizzazioni selvagge e a prezzi di supersaldi. E tra pochi mesi si va al voto, con un Prodi quasi certo vincitore e un Giuliano Amato che si prepara per il gran volo verso il Colle più alto di Roma. Quel dottor Sottile che, nel drammatico 1992, fu chiamato a reggere il timone del Governo, dopo il siluramento di Craxi. Ed al ministero del Tesoro regnava il Verbo del direttore generale, Mario Draghi, al quale – scriveva a inizio 2000 nel Gioco dell’Opa il giornalista economico Enrico Cisnetto – «molti imputano di essere persino più potente di Ciampi, cioè un super ministro che non ha mai ricevuto alcuna investitura popolare», addirittura «l’uomo più potente d’Italia», secondo un Business Week di fine anni ’90, che lo ha anche visto all’opera tra i vertici della Banca Mondiale. Saprà ora Draghi traghettare la nostra superbucata nave fuori dalla tempesta ed evitarci il naufragio? Cerchiamo di capirlo, passando in rassegna la carriera del nuovo nocchiero di via Nazionale.
TUTTI A BORDO
Partiamo proprio dal mare. Eccoci a bordo del Britannia, il panfilo della regina Elisabetta in rotta lungo le coste tirreniche, dalle acque di Civitavecchia e quelle dell’Argentario. E’ il 2 giugno, festa della Repubblica, sono trascorsi esattamente cento giorni dall’arresto di Chiesa. Ma i potenti, si sa, hanno le antenne ben tese e si organizzano in un baleno. Negli splendidi saloni del panfilo si son dati appuntamento oltre centro tra banchieri, uomini d’affari, pezzi da novanta della finanza internazionale, soprattutto di marca statunitense e anglo-olandese. A guidare la nostra delegazione – raccontano in modo scarno le cronache dell’epoca – proprio lui, Draghi, che ai «signori della City» illustra per filo e per segno il maxi programma di dismissioni da parte dello Stato e di privatizzazioni. Un vero e proprio smantellamento dello Stato imprenditore.
A quel summit, secondo i bene informati, avrebbe partecipato anche l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che sul programma Draghi cercò di far da pompiere: «non venne programmata alcuna svendita – osservò – fu solo il prezzo da pagare per entrare tra i primi nel club dell’euro». Più chiari di così…. In perfetta sintonia con l’attuale “avversario” (del Polo) l’allora presidente Iri, Romano Prodi e quello dell’Eni, Franco Barnabè. Pochissime le voci di dissenso. Il napoletano Antonio Parlato, all’epoca sottosegretario al Bilancio, di An, sostenne che Draghi aveva intenzione di portare avanti un progetto di privatizzazioni selvagge. E aggiunse che proprio sul Britannia si sarebbero raggiunti gli accordi per una supersvalutazione della lira. Guarda caso, tra gli invitati “eccellenti” del Britannia fa capolino George Soros, super finanziere d’assalto di origini ungheresi ma yankee d’adozione, a capo del Quantum Fund e protagonista di una incredibile serie di crac provocati in svariate nazioni nel mirino degli Usa, potendo contare su smisurate liquidità, secondo alcune fonti di origine anche colombiana. E guarda caso, per l’Italia sarà settembre nero, anzi nerissimo, con una svalutazione del 30 per cento che costringerà l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi (direttore generale Lamberto Dini) a prosciugare le risorse della banca centrale (quasi 50 miliardi di dollari) per fronteggiare il maxi attacco speculativo nei confronti della lira.
A infilarci pesantemente uno zampino anche Moody’s, l’agenzia di rating che declassò i nostri Bot. Le inchieste per super-aggiotaggio avviate in diverse procure italiane (fra cui Napoli e Roma) sono finite nella classica bolla di sapone. Eppure, anche allora, e come al solito, a rimetterci l’osso del collo sono stati i cittadini-risparmiatori. Craxi puntò l’indice contro «una quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», parlando di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», e di un «intreccio di forze e circostanze diverse».
IL SALVATOR SOTTILE
Ad arginare la tempesta arriverà il governo di salute pubblica guidato da Giuliano Amato, il dottor Sottile passato dalla fedeltà craxiana a quella dalemiana. E per guidare il tanto sospirato piano di Privatizzazioni – il solo che potrà salvare la nave Italia dalle tempeste finanziarie – chi potrà esserci mai? Of course, Super Mario Draghi, che in otto anni porterà a casa un bottino da quasi 200 mila miliardi di vecchie lire, vendendo a destra e a manca gli ex gioielli di casa, anzi dello Stato. Una mission messa a segno con grande determinazione, portandoci in testa alla hit internazionale dei ‘privatizzatori’ (secondi solo alla Gran Bretagna dell’amico Tony Blair). Ma, secondo altri “tecnici”, con una politica di scientifica vendita a prezzi stracciati. Super Mario – appena sceso dal Britannia – dà inizio alla sua guerra. Siamo a metà luglio 1992 quando l’appena battezzato governo Amato dà il via libera alla liquidazione dell’Efim, azienda storica del parastato, gestito coi piedi dai boiardi di Stato ma ancora in grado di esprimere qualcosa. «Draghi fa una piccola finta iniziale – descrive chi lo conosce bene – per congelare i debiti con le banche, anche estere. Ma poi tutto si accomoda, già a fine agosto gli istituti di credito internazionali sono contenti di come procedono le cose e poi verranno soddisfatti man mano».
Peccato che vada disintegrato un patrimonio non da poco, composto da un centinaio di società del gruppo e da migliaia e migliaia di posti di lavoro. Ma si sa, la finanza, soprattutto quella “globalizzata”, non può andar tanto per il… Sottile. Da allora in poi sarà un valzer di dismissioni. E di grandi manovre. Proprio alla fine di quella bollente estate 1992, il governo Amato apre le danze, con la trasformazione in società per azioni dei grandi enti pubblici, Enel, Eni, Ina ed Iri in pole position. La prima maxi operazione è di un anno dopo, quando il Credito Italiano va all’asta, per la gioia di imprenditori della vecchia e nuova finanza, d’assalto e non. La finanza anglo-americana, quella a bordo del Britannia, gongola, ed un segnale più che significativo arriva con lo sbarco del neo ambasciatore Reginald Bartholomew, che dopo qualche mese di acclimatamento tra i salotti romani dichiara: «continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera agli investimenti esteri».
Dopo cinque anni – dimessi i panni dell’ambasciatore – Bartholomew viene nominato presidente della Merryl Linch Italia, uno dei colossi finanziari made in Usa. Quando la politica & la finanza vanno a braccetto. Detto, fatto, comunque. Le direttive di mr. Reginald sono state seguite a puntino nel corso degli anni ’90. Dalle maxi privatizzazioni targate Telecom (23 mila miliardi) ed Enel (32 mila), passando attraverso un mare di aziende sparse un po’ in tutti i settori, a cominciare dall’agroalimentare che viene letteralmente dato in pasto, è il caso di dirlo, ai big olandesi, inglesi o a stelle e strisce. Arriviamo nel 2000. L’altro colosso di Stato, l’Eni, è già in avanzata fase di privatizzazione. Manca solo il ramo “immobili”, la ciliegina finale. Ad acquisirne la fetta più grossa, per circa 3000 miliardi delle vecchie lire, è un altro colosso dell’intermediazione finanziaria Usa, Goldman Sachs, tramite il suo dinamicissimo fondo Whitehall, che così entra in possesso – per fare un solo esempio – dell’ex area Eni di San Donato Milanese, 300 mila metri quadrati superappetibili, dove potrebbero essere trasferiti gli storici locali Rai di corso Sempione. Goldman Sachs, comunque, non si ferma qui, e fa incetta di altri immobili, come quelli della Fondazione Cariplo (e poi, con un altro big Usa, Morgan Stanely, sui patrimoni mattonari di Unim, Ras e Toro).
Altro acchiappatutto, il gruppo Carlyle, che ha fatto incetta di immobili anche a Napoli (tra gli azionisti principali, le famiglie Bush e Bin Laden). Secondo le ultime statistiche di fonte Sole 24 Ore (“Scenari Immobiliari”) i gruppi esteri ormai sopravanzano quelli nostrani, 11 mila contro 15 mila miliardi di vecchie lire di patrimonio ex-pubblico: tra i privati nazionali spiccano Ipi (Danilo Coppola), Pirelli Real Estate (Tronchetti Provera), Risanamento (Zunino), Statuto, Ligresti, ovvero la crema mattonara di casa nostra.
THANK YOU, GOLDMAN
Nel 2001 Mario Draghi, compiuta la sua mission come direttore generale del Tesoro e soprattutto responsabile delle privatizzazioni, passa al altro incarico. Non più pubblico, questa volta, ma privato. Non più in Italia ma all’estero. Ad arruolarlo è proprio il colosso a stelle e strisce: a gennaio, infatti, assume la carica di vice presidente della Goldman Sachs International. Anni pieni di successi, tanto che a fine 2004 viene nominato al vertice del “management committee”, l’organismo che pianifica tutte le decisioni del gruppo a livello internazionale, il primo “non statunitense” a tagliare questo traguardo nella storia di Goldman. Il pedigree della super-banca d’affari a stelle e strisce, comunque, può vantare una sfilza di nomi illustri. E torniamo a quel fatidico 1992. Il presidente della Federal Riserve Bank di New York (che fa capo alla Banca centrale americana), Gerald Carrigan, legato a filo doppio con George Soros, si dimette e passa tra le fila della Goldman Sachs, in qualità di presidente dei consiglieri internazionali del gruppo.
Tra i consiglieri della stessa banca ha figurato Romano Prodi. Oggi, al posto di Draghi, siede l’ex commissario Ue Mario Monti. E’ entrato nel gruppo a fine novembre: forse proprio per questo – quando è rimbalzato il suo nome per il vertice Bankitalia – ha fatto un passo indietro. Per un evidente conflitto d’interesse. Da un conflitto all’altro, eccoci sempre all’estero, con le possibili acquisizioni delle nostrane Bnl e Antonveneta da parte del Banco di Bilbao e dell’olandese Abn Ambro, in contrapposizione alle nostrane Unipol (vedi alla voce Consorte) e BPI (vedi alla voce Popolare di Lodi di Giampiero Fiorani). Ebbene, in entrambi i casi, Goldman Sachs ha svolto il ruolo di “advisor”, valutando positivamente le due offerte straniere. E oggi Fazio osserva: «ho cercato di evitare a tutti i costi la colonizzazione del nostro sistema bancario. Vedrete quel che succederà dopo di me». Val la pena di stare a vedere e, se possibile, di accendere i riflettori.
I GRAN REGISTI DI MANI PULITE
Cè una strategia ad orologeria in Mani pulite? Come mai il bubbone è scoppiato in quel ’92, quando la corruzione ormai dilagava da anni ? Possibile che tutto sia uscito dai porti delle nebbie in un sol botto? Come mai i pm prima non sentivano e non vedevano, oppure venivano zittiti dai loro capi? Interrogativi ai quali non è stata fornita alcuna risposta. E lo stesso clamoroso abbandono della toga da parte dell’uomo simbolo di quella stagione, Antonio Di Pietro, sta a dimostrarlo. Un episodio fino ad oggi mai chiarito. Come non è chiara la genesi di una fantomatica “Mani Pulite International”, ovvero “Transparency International”, che nata dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 per iniziativa del principe Filippo di Edimburgo avrebbe trovato adepti in mezza Europa. Dalla Banca Mondiale – sua principale ispiratrice – fino ai leghisti della Padania. Stando ad alcune ricostruzioni, infatti, Mani Pulite International avrebbe subito trovato impulso tramite il responsabile della Banca Mondiale per il Kenya, Peter Eigen, promotore di una linea anti-corruzione a tutto campo, anche a costo di sterminare diritti, annientare fondi per i paesi in via di sviluppo e via cantando.
«Alla fine della guerra fredda – dichiarò Eigen – i tempi erano maturi e assieme ad alcuni colleghi decisi di procedere indipendentemente con l’iniziativa». Venne stilato una sorta di decalogo, in base al quale era possibile, anzi lecito e quasi dovuto intervenire nelle nazioni a rischio-corruzione, nei loro affari interni. Non pochi storici ricordano il caso del presidente di Deutsche Bank, Alfred Herrhausen, che osò sfidare la politica a tutto campo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: il 30 novembre 1989 verrà trovato ucciso. Tra gli ideologi di Transparency International Hans Helmut Hoeppe, docente all’università del Nevada, il quale non esclude la necessità ultima dell’autoritarismo come unico mezzo per porre fine allo stato sociale ma propone un’alternativa: una radicale politica di “decentralizzazione” e “privatizzazione” di quasi tutte le istituzioni, compresa polizia, magistratura e forze armate. E tra gli sponsor in prima linea, of course, le fondazioni legate alla regina Elisabetta (Corwn Agents, British Overseas Development Administration, Bhp Minerals of Australia, Rio Tinto, Tate & Lile, Nuffield Fountation, Rownee Trust). Poi la misteriosa società Mont Pelerin, fondata nel 1947 da Friedrich von Hayek e che tra i suoi aficionados italiani conterebbe sulle presenze dell’ex ministro alla difesa Antonio Martino e dell’economista Sergio Ricossa. Ai vertici della sua piramide, tra gli altri, Peter Berry, direttore della Crown Agency britannica, e il ministro colombiano della giustizia Nestor Neira.
Ma a quanto pare è proprio George Soros il grande burattinaio dell’organizzazione, che – guarda caso – attraverso suoi fedelissimi, avrebbe provocato maxi crac nelle economie di mezzo mondo. Del resto, il suo Quantum Fund è una diretta emanazione del gruppo Rothschild. Un solo esempio? Richard Katz, ex direttore della Rotschild Italia e allo stesso tempo membro del comitato esecutivo del Quantum Fund di Soros. Registrato nel paradiso fiscale delle Antille olandesi, nel suo consiglio d’amministrazione fanno capolino alcuni nomi di un certo peso: come quello di Isidoro Alberini, storico agente di cambio alla Borsa di Milano, Nils Taube (socio dei Rotschild nella finanziaria St.James Place Capital), Amebee de Moustier (della Ifa Banque di Parigi), Edgar de Picciotto. Quest’ultimo è al vertice della UBP (Union Bancarie Privée) di Ginevra, terza banca svizzera, uno dei cui soci, Edmund Safra, è stato coinvolto in un’inchiesta della Dea americana per riciclaggio dei narcodollari colombiani. Tra i più accaniti fan di Mani Pulite International, alcuni padani doc.
A presiedere il movimento TI in Italia figura, infatti, Maria Teresa Brassiolo, consigliere della lega Nord al comune di Milano, mentre ai vertici organizzativi figura un altro esponente del Carroccio a Saronno, Edoardo Panizza. Una in perfetto stile Calderoli, la Brassiolo , che suggerisce l’uso del bisturi nei confronti dei criminali: «prima di ammazzarli basterebbe magari operarli o dare loro delle medicine, del resto se uno ha l’appendicite lo operano di appendicite». O no?
LE MAFIO-MASSONERIE DI BILDERBERG E TRILATERAL
I signori della finanza, evidentemente, amano le acque. Vuoi quelle marine, come nel caso della crociera d’affari sul Britannia di Sua Maestà, vuoi quelle, più tranquille, di un bel lago. Come è successo, ad esempio, sulle rive del Maggiore, in quel di Stresa, dove a giugno 2003 il Gruppo Bilderberg a festeggiato i suoi primi 50 anni. Li ritroviamo lì, in un abbraccio appassionato, i potenti della terra, dall’immancabile Henry Kissinger a David Rockfeller fino a Melinda Gates. E la nostra truppa? Mista al punto giusto, trasversale che più non si potrebbe. Il meeting del cinquantennio ha visto la partecipazione, sul versante finanziario, di Franco Bernabè, Rodolfo De Benedetti, Mario Draghi, Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Riccardo Passera, Paolo Scaroni, Marco Tronchetti Provera. Per la serie: tutti i candidati possibili alla successione di Fazio al vertice di Bankitalia! Tra gli economisti-politici, i due ultimi ministri dell’Economia nel governo Berlusconi, Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti.
Ma nel corso degli anni le presenze agli annuali meeting – a partire dal 1982 ad oggi – sono state numerose e di grande prestigio: non ha fatto mancare la sua presenza il gruppo Fiat, con i fratelli Gianni e Umberto Agnelli, Paolo Fresco e l’amico Renato Ruggiero (per pochi mesi al timone del ministero degli Esteri); e poi i banchieri Rainer Masera, al vertice del gruppo Imi San Paolo, e Alessandro Profumo, Confindustria con Innocenzo Cipolletta; e un folto drappello di politici, dai polisti Giorgio La Malfa , Gianni De Michelis e Claudio Martelli (oltre ai già ricordati Tremonti e Siniscalco), agli ulivisti Romano Prodi, Valter Veltroni e Virginio Rognoni.
Ecco cosa ne pensa di queste combriccole un giornalista di razza come Fulvio Grimaldi (lo ricordate, col suo inseparabile bassotto a denunciare senza peli sulla lingua gli imbrogli a 360 gradi e per questo prudentemente fatto fuori dalla Rai?), in un lungo reportage consultabile solo via internet, sul sito contro “Come don Chisciotte”: «31 dicembre: nel plauso a denti stretti della destra e più convinto della “sinistra” a Mario Draghi governatore della Banca d’Italia, si chiude l’annus horribilis berlusconian-dalemiano-bertinottiano 2005. Vince la finanza anglo israeliana, massonica e laica (si fa per dire), perde la finanza cattolica e in specie la massoneria Opus Dei. Vincono anche coloro che 13 anni prima hanno avviato la bancarotta italiana, assassinato la politica e fatto trionfare un’economia in gran parte straniera di rapina e per il resto quella che impesta l’aria di questi tempi. La posta in gioco? Tra le altre il famigerato Partito Democratico filoclintoniano, filoisraeliano, filobilderberghiano, massonico, di Rutelli, Veltroni e aggregati vari».
Grimaldi definisce Bilderberg e Trilateral come «organizzazioni mafioso-massoniche». Sta di fatto che sugli incontri targati Bilberberg – nel corso dei quali si discute dei destini e degli assetti mondiali – vige il più assoluto riserbo. Sulla stampa ufficiale, nessuna riga. Forse perché, tra gli invitati di lusso, figurano anche alcuni grossi calibri della stampa nazionale, da Ferruccio De Bortoli a Gianni Riotta, fino a Lucio Caracciolo. Manca solo Magdi Allam: sarà per la prossima volta.
http://www.disinformazione.it/stirpedraghi.htm
Dal Britannia alle liquidazioni
Rinascita www.rinascita.info del 5 giugno 2006
L’allievo prediletto del fu, dello scomparso, professor Caffè, il Gran Timoniere del Sacco d’Italia, e cioè di quelle privatizzazioni e “liberalizzazioni” (sic) che hanno di fatto azzerato ogni partecipazione e vigilanza pubblica – e cioè di tutti noi – sulle aziende strategiche, fondamentali, nazionali (dall’energia alle telecomunicazioni, dai trasporti alle banche), mercoledì ha parlato.
Il “primo giorno” di Henry Paulson quale nuovo segretario al Tesoro Usa, è stato dunque anche il “primo giorno” dell’ex direttore generale del Tesoro italiano, del delfino di Ciampi.
A Washington l’amministratore delegato di Goldman & Sachs, a Roma il direttore generale della stessa banca d’affari nonché vicepresidente della Goldman & Sachs International.
A Washington Paulson va al timone del Tesoro – come dichiarato dal suo presidente, Bush – ”grazie a un’intima conoscenza dei mercati finanziari” e e cioè a dettare il ribasso del dollaro per bloccare ulteriormente le esportazioni dai Paesi dell’euro.
A Roma Draghi ha dettato, di pari passo, gli ultimi accorgimenti per sfasciare lo stato sociale: la rapina del tfr da investire in borsa sotto l’etichetta di “fondi pensione”, il completamento delle svendite di Stato, l’assenso preventivo – chiamato “indifferenza” – sulle fusioni tra istituti bancari e cento altre riforme finanziarie di struttura.
Buona scuola non mente. Non a caso il 2 giugno del 1992 proprio Draghi – assieme al governatore della Banca d’Inghilterra, ai vari rappresentanti delle banche d’affari ( la Goldman & Sachs, appunto) al ministro della Distruzione dell’Industria Pubblica Italiana Beniamino Andreatta, e al “mecenate” Georges Soros, partecipò ad una crociera sull’allora panfilo della Regina d’Inghilterra, il Britannia, al largo di Civitavecchia, per tessere la tela della svendita del settore italiano a partecipazione statale che tanta golosità calamitava tutt’intorno.
Non a caso, poco dopo, ci fu il “settembre nero” dell’economia italiana, determinato dalle speculazioni sulla lira del compagno di viaggio Georges Soros che, denunciate da Bettino Craxi ma non ostacolate dal duo Scalfari-Ciampi, portarono alla svalutazione della nostra valuta, alla sua fuoriuscita dal Sistema monetario europeo, e quindi al più grande buco annuale di bilancio italiano del dopoguerra (“sanato”, da una megastangata, da un megaprestito internazionale, con i relativi interessi moltiplicati che dunque tuttora pesano sul deficit pubblico nazionale).
Non a caso a fornire i dollari – la “materia prima” per svalutare la lira – fu la solita Goldman & Sachs.
Non a caso nel Consiglio di Goldman Sachs è stato presente anche Romano Prodi.
Non a caso Romano Prodi è stato lo sponsor ufficiale della laurea honoris causa (sic) elargita dall’Università di Bologna al “mecenate” Soros (tra l’altro condannato all’ergastolo in Malesia per aver replicato la speculazione monetaria anche in quel Paese).
Non a caso c’è ancora un “amico italiano” nella Goldman & Sachs, un “consulente”, sul quale fare riferimento in caso di necessità: l’esimio Mario Monti.
Non a caso Mario Draghi è tuttora “l’uomo forte” dell’euro (si legga la sua primissima dichiarazione d’intenti…), di un euro che deve restare “forte” sul dollaro (per bloccare le nostre esportazioni e facilitare quelle del padrone d’oltre Atlantico). Un “euro” che però non deve essere dei cittadini, delle Nazioni, ma della cupola angloamericana delle Banche centrali, la segreta Banca per i Regolamenti Internazionali
http://www.disinformazione.it/britannia.htm